Non muore chi vive nel cuore di chi resta

03.01.2025 08:16 di  Gianluca Andreuccetti   vedi letture
Aldo Agroppi
Aldo Agroppi
© foto di G. Andreuccetti, Amaranta.it

Roma – È la mattina di giovedì 2 gennaio e sono a Roma, a casa dei miei genitori, per trascorrere insieme a loro quel che resta delle vacanze di Natale 2024: suona la sveglia e, iniziando a fare la mia personale rassegna stampa prima ancora di accendere la luce, scopro che, nella notte tra mercoledì e giovedì, è venuto a mancare Aldo Agroppi in seguito alle complicanze di una polmonite che lo teneva avvinghiato, già da alcuni giorni, a un letto di Villa Marina, l’ospedale della sua Piombino.    

La sua Piombino, la mia Piombino, la nostra Piombino: ora che sono qui, seduto sul vagone di un treno che, partendo da Roma, mi porterà a Campiglia Marittima, a pochi chilometri da casa sua, mi rendo conto che, principiando dalla morte di Aldo, potrei scrivere un’intera enciclopedia se solo provassi a mettere insieme tutti gli aneddoti che mi legano a lui, tutte le partite di calcio che il suo ricordo mi evoca e tutti i racconti in cui Aldo è stato il protagonista in circa tre decenni di giornali, radio e televisioni.

Per me che mi sento piombinese senza esserlo, per il solo fatto di essere figlio e nipote di piombinesi, e che mi onoro di aver trascorso la gran parte delle mie prime sedici estati sulle rive del Golfo di Piombino, Aldo è stato innanzitutto un riferimento: è stato il figlio più illustre di una terra bistrattata da troppo tempo che, con il suo modo di fare, ha saputo farsi ambasciatore della piombinesità nel resto d’Italia e nel resto del mondo; è stato un riferimento nei racconti che di lui mi hanno sempre fatto mia nonna, a casa della quale era cresciuto, e mio padre, con il quale aveva cominciato a giocare a calcio, pur essendo di due anni più piccolo.

In queste ore si va dicendo da più parti che Aldo, figlio di un arbitro, abbia ricoperto nel calcio tutti gli incarichi possibili e che sia stato calciatore, allenatore, dirigente e opinionista sportivo; c’è del vero in tutto questo: Aldo ha ricoperto tutti i possibili incarichi nel mondo del calcio, ma, appesi gli scarpini al chiodo, non è più riuscito a replicare i fasti che aveva vissuto da calciatore, neanche quando riuscì a condurre il Pisa di Romeo Anconetani in serie A (stagione 1981-1982) o quando riuscì a classificarsi al quarto posto nella massima serie, quando era alla guida della Fiorentina di Ranieri Pontello (stagione 1985-1986).

E nella stessa maniera in cui si evidenzia la capacità di ricoprire ruoli diversi all’interno dello stesso mondo, probabilmente ci si dimentica di quanto Aldo da Piombino fosse un personaggio divisivo, fintanto che è rimasto in vita: le sue posizioni, genuine e mai costruite, erano talmente estreme da far risultare difficile una posizione di parziale accordo o di parziale disaccordo con lui. O si era con lui o si era contro di lui, perché Aldo era così: era capace di dividere le persone in guelfi e ghibellini, di vedere il bianco o il nero e, ciononostante, di farsi amare lo stesso.

Ripensare alla sua carriera è come raccontare un interminabile sentiero, fatto di vittorie e sconfitte, di discese e di risalite, in un mix inscindibile di passione per quel che si fa, di feroce determinazione e di rimpianto per essere andato ad un soffio dal centrare il bersaglio grosso o per aver incontrato davanti a sé la malasorte: Aldo debuttò in Serie A con la maglia del Torino il 15 ottobre 1967, in un Torino-Sampdoria 4 a 2, al termine del quale Gigi Meroni (sì, proprio lui) perse la vita in un banale incidente stradale che, certamente, non si sarebbe verificato se i granata non avessero vinto quella partita; poco meno di cinque anni dopo, in un Sampdoria-Torino 2 a 1 del 12 marzo 1972, lo stesso Aldo si vide respingere da Marcello Lippi un tiro che aveva già oltrepassato la linea di porta nel contesto di una partita che molto disse sulle ambizioni scudetto dei granata; solo tre anni più tardi, nell’estate del 1975, per volere di Gigi Radice, si vide costretto ad abbandonare la navicella granata insieme a personaggi del calibro di Giorgio Ferrini e di Angelo Cereser, con i quali aveva condiviso una lunga militanza torinista; nel 1986, invece, una squalifica per omessa denuncia relativa al periodo in cui allenava il Perugia convinse la dirigenza viola a non indugiare e a cambiare la guida tecnica, nonostante l’ottima stagione precedente, e a virare su Eugenio Bersellini, privando così lo stesso Aldo della possibilità di disputare una competizione europea.

Provare a riannodare i fili della carriera di un personaggio che ha attraversato sei decenni del nostro calcio, lasciando un’impronta a suo modo indelebile in quello che è lo sport più seguito nel nostro Paese, è tanto più difficile e più particolare se si pensa che, nel momento in cui sto completando la scrittura, si è nella notte tra il 2 e il 3 gennaio.

E fu proprio il 3 gennaio di trentadue anni fa, paradossalmente, a consegnare ad Aldo l’ultimo grande appuntamento con il destino della sua carriera agonistica: era domenica e allo Stadio Artemio Franchi era di scena l’Atalanta di Lippi, in uno scontro di alta classifica valido per la quattordicesima giornata di campionato, in cui si trovarono l’una di fronte all’altra la squadra di Radice, che aveva voluto Aldo lontano da Torino perché soffriva la sua personalità all’interno dello spogliatoio, e la sorpresa del campionato allenata da Lippi che, con una sua furbizia, aveva impedito ad Aldo di lottare fino all’ultimo per aggiudicarsi il tricolore.

Nelle ore che precedettero quella partita, Vittorio Cecchi Gori provò a imporre l’undici titolare a Radice e gli promise l’esonero nel caso in cui il tecnico lombardo avesse fatto di testa propria e la Fiorentina avesse perso la partita; in effetti, andò proprio così: Radice fece di testa propria nel comporre l’undici titolare, la Fiorentina perse la partita e, di fatto, l’acerrimo nemico Lippi consegnò la panchina della Fiorentina proprio nelle mani di Aldo perché Cecchi Gori, scegliendo di esonerare Radice, decise di affidare la squadra ad Aldo.

Aldo cedette alle lusinghe di Cecchi Gori e accettò di tornare a sedere in panchina, nonostante la retrocessione di Ascoli di due anni e mezzo prima e la scelta di intraprendere la carriera di opinionista sportivo, ma ormai era troppo tardi: nel sedere in panchina, non si sentiva più nei suoi cenci di allenatore, tanto da essere esonerato a cinque giornate dal termine, con la squadra in piena zona retrocessione che fu affidata alla coppia formata da Luciano Chiarugi e da Giancarlo Antognoni.

A dimostrazione di come la passione per quel che si fa e una feroce determinazione, com’è stata quella che ha animato Aldo nel tentativo riuscito di affermarsi nel mondo del calcio, possono molto ma non possono tutto.

Nel ricordarlo, il “giaguaro” Luciano Castellini ha detto che «di Aldo Agroppi non ne nasceranno più»: è proprio vero, Aldo, ma è stato bello sentirmi parte di quell’abbraccio collettivo in cui univi e tenevi stretti tutti coloro che amano Piombino. Ciao, Aldo!